Convalescenza o trasformazione economica per una decrescita della povertà?

La pandemia sta avendo sicuramente un impatto su ciascuno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile che compongono l’Agenda 2030 dell’ONU, ma riconosciamo un evidente impatto sui Goal 1 (povertà), 4 (educazione), 8 (condizione economica e occupazionale), 9 (innovazione), 10 (disuguaglianze).

Desidero soffermarmi sulla povertà e porre qualche domanda sul come non continuare a favorire la sua crescita semmai avviare una decrescita.

Da tempo, e non solo in questi giorni, Papa Francesco ripete che il grande pericolo della società contemporanea è la “cultura dello scarto”: «Esistono doveri inderogabili della solidarietà e della fraternità che troppo spesso dimentichiamo».

Le immagini di questi giorni ci mostrano ovunque tendopoli di emergenza che ospitano chi non ha più nulla di fronte a grandi alberghi chiusi dalla crisi e dall’ombra sempre più inquietante della depressione economica.

«Una società merita la qualifica di “civile” se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza» (Papa Francesco)

Quando sarà finita la pandemia faremo i conti con una crisi economica ed una presenza di poveri senza precedenti.

Ci viene spontanea la prima domanda:

  • Pensiamo nel prossimo futuro trattare le persone scartate dalla pandemia (economica) come succede con i rifiuti gettati nell’indifferenziata?

Muhammad Yunus[1] che tutti conosciamo, ha scritto recentemente in un suo articolo:

nel post-coronavirus «Possiamo andare in qualsiasi direzione vorremo. Che incredibile libertà di scelta!»

E si pone una domanda: «Riportiamo il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegniamo daccapo? La decisione spetta soltanto a noi».

Enrico Giovannini (Presidente ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile)[2] – in un suo recente articolo ha scritto: «la cultura olistica, l’unica davvero possibile, ci insegna che la cultura dello scarto non può essere mai fine a sé stessa. Tutto può essere recuperato, persone, territori, tradizioni, perché tutto deve essere rigenerato e riutilizzato. Non esistono rifiuti nella materia. Esistono semmai destini da ricostruire e un equilibrio da mantenere perché la disuguaglianza e l’abbandono sono solo disordine che genera crisi, conflitto, rabbia»

Potremmo chiederci, ancora:

  • Cosa possiamo fare perché la ripresa post-coronavirus sia una ripresa economica trainata da una consapevolezza sociale?
  • I governi saranno capaci di garantire ai cittadini un programma di ripresa completamente diverso da quelli del passato?
  • Corriamo il rischio che la ripresa sarà attuata solo per riportare le cose al punto in cui eravamo prima?
  • Riusciremo nelle nostre imprese a mettere al centro delle nostre decisioni e in tutti i processi decisionali una nuova consapevolezza sociale e ambientale?
  • Ci potrebbe aiutare il modello della “Economia Circolare”?

Sicuramente conosciamo la notizia che la Commissione Europea punta sul Green New Deal Digital Trasformation e Innovation, e che la BEI ha deciso che non finanzierà più progetti basati sui combustili fossili.

Questo è quello che sperava Jeremy Rifkin[3] che invitava a prelevare centinaia di miliardi di dollari di investimenti dal settore dei combustibili fossili e industrie collegate per reinvestirli nell’economia verde, ed aggiungo nell’economia sociale.

Quindi, ultime domande:

  • Possiamo immagine di essere pronti all’avvento dell’era del capitalismo sociale?
  • Possiamo dare vita ad un modello di “impresa sociale” creata esclusivamente per risolvere i problemi delle persone e che garantisca la rigenerazione delle uguaglianze e distribuisca ricchezza a tutti e non solo agli investitori?

[1] Economista e banchiere bengalese. È ideatore e realizzatore del microcredito moderno, ovvero di un sistema di piccoli prestiti destinati ad imprenditori troppo poveri per ottenere credito dai circuiti bancari tradizionali, per i suoi sforzi in questo campo ha vinto il premio Nobel per la pace 2006.

[2] È stato Chief Statistician dell’OCSE dal 2001 all’agosto 2009, Presidente dell’ISTAT dall’agosto 2009 all’aprile 2013. Dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014 è stato Ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta.
È Professore ordinario di statistica economica all’Università di Roma “Tor Vergata”, docente di Public Management presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università LUISS e membro di numerosi Board di fondazioni e di organizzazioni nazionali e internazionali.

[3] Jeremy Rifkin è un economista, sociologo, attivista e saggista statunitense.

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